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Autore: Rolando Dubini
Categoria: Sentenze commentate
16/05/2019: Alcune sentenze che hanno affrontato il tema del mobbing con riferimento alle dimensioni aziendali, all’articolo 572 del Codice Penale, al contesto relazione in azienda e al reato di maltrattamenti.
Nella sentenza Cassazione Penale, sez. VI, 20 marzo 2014, n. 13088 ci si occupa di condotte vessatorie tenute dagli imputati contro alcune lavoratrici.
La Corte di appello di Milano riformava parzialmente la pronuncia di condanna di primo grado, riconoscendo ai due imputati, uno il Direttore di produzione, e l’altro il suo stretto Collaboratore, le attenuanti generiche e dichiarando estinti i reati loro ascritti per intervenuta prescrizione, confermando nel resto la pronuncia con la quale il Tribunale di Busto Arsizio aveva condannato gli stessi al risarcimento dei danni cagionati alle costituite parti civili C.S. e R.G.R. [lavoratrici] , per aver commesso i reati di cui agli articoli 81 cpv., 110 e 572 cod. pen., avendo, all’interno di un’azienda, nelle loro qualità di cui sopra:
- costituito un gruppo che maltrattava i lavoratori non graditi che si erano rifiutati di conformarsi alle logiche di quel gruppo – tra le quali quelle di sottostare a scherzi, anche a sfondo sessuale, da parte dei superiori e dei colleghi – o perché iscritti ad organizzazioni sindacali o perché ritenuti inadeguati allo svolgimento di alcune attività aziendali,
- ponendo in essere contro di loro numerose condotte vessatorie, in particolare consistenti in approcci sessuali tanto verbali quanto fisici (per mezzo di toccamenti delle natiche e di altre parti del corpo, baci e tentativi di baci, abbracci e sfregamenti intenzionali del corpo contro le parti intime altrui, approcci sempre rifiutati dalle due donne), nella loro assegnazione deliberata ad operare su macchinari difettosi, con contestuale rifiuto di provvedere alle necessarie manutenzioni e riparazioni, nella continua contestazione del lavoro svolto ed in rimproveri pubblici, a contenuto gravemente e gratuitamente offensivo; in demansionamenti punitivi ed azioni di deliberato isolamento di dette lavoratrici, in particolare, per la C. , all’interno di una sala di umidificazione; con l’aggravante dell’essere derivati dal fatto alle persone offese conseguenti lesioni personali gravi.
Gli imputati hanno contestato in modo articolato gli addebiti con ricorso per cassazione.
La vicenda processuale al vaglio della Suprema Corte pone la questione della possibilità che il mobbing si traduca in reato riconosciuto dal Codice Penale, ed in particolare dall’art. 572 dello stesso Codice.
La Suprema Corte ribadisce, con la sua decisione, un proprio noto principio, per il quale non ogni fenomeno di mobbing – e cioè ogni comportamento vessatorio e discriminatorio – attuato nell’ambito di un ambiente lavorativo, integra gli estremi del delitto di maltrattamenti in famiglia, in quanto, per la configurabilità di tale reato, anche dopo le modifiche apportate dalla legge n. 172 del 2012, è necessario che le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. “mobbing”) si inquadrino in un rapporto tra il datore di lavoro ed il dipendente capace di assumere una natura para-familiare.
Quando il rapporto necessariamente gerarchico tra datore di lavoro e imprenditore assume una natura para-familiare?
Secondo la Suprema Corte questo accade quando è caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti coinvolti, dalla riconoscibile soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. Si richiede, pertanto, un rapporto di soggezione anche di natura evidentemente psicologica che configura caratteristiche para-familiari anche in ragione delle peculiarità dell’attività lavorativa prestata ovvero delle dimensioni e natura organizzativa del luogo di lavoro.
Ovvero in situazioni nelle quali è possibile riconoscere quella peculiare sottoposizione all’altrui autorità ovvero quell’affidamento per l’esercizio di una professione o di un’arte, cui fa espresso riferimento l’art. 572 cod. pen.
Ne consegue che non sarà mai configurabile la fattispecie delittuosa di maltrattamenti ex art., 572 c.p., anche in presenza di una ben riconoscibile contesto di manifesto vessatorio in ambito lavorativo, nel caso in cui ci si trovi davanti ad una entità aziendale sufficientemente articolata e complessa, in cui non sia riscontrabile quella stretta ed intensa relazione diretta tra datore di lavoro e dipendente, tale da determinare una comunanza di vita assimilabile a quella del consorzio familiare.
In realtà la cassazione non definisce un limite numerico esatto, difatti nelle varie decisioni troviamo 25 dipendenti o 50 come situazioni nelle quali non è configurabile il contesto familiare, non solo per il numero ma per la concreta e in qualche misura impersonale organizzazione aziendale.
Dopo aver premesso questo ragionamento giuridico fondamentale, nel caso di specie, sentenzia la Cassazione, a fronte dell’accertata esistenza di una realtà aziendale di non ridotte dimensioni, caratterizzata da uno stabilimento di notevoli dimensioni e dalla incontestata presenza di circa cinquanta dipendenti, anche sindacalizzati, non è possibile riconoscere gli estremi del reato di cui all’art. 572 c.p., non consentendo in alcun modo l’attività prestata dal dipendente e le dimensioni dell’azienda di parificare l’ambiente di lavoro ad una famiglia.
La sesta sezione penale, dunque, annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato contestato di cui all’art. 572 cod. pen. non sussiste.
Successivamente la Cassazione Penale, Sez. VI, sentenza 6 giugno 2016 [(ud. 26 febbraio 2016), n. 23358 Presidente Paoloni, Relatore Carcano], pur non negando astrattamente che le condotte persecutorie sul luogo di lavoro, c.d. mobbing, possano integrare gli estremi del reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p., precisa che tale ipotesi ricorre esclusivamente nel caso in cui si tratti di attività lavorative compatibili col concetto di c.d. “parafamiliarità”, che non ricorre in una “realtà aziendale normale“ (in particolare se di dimensioni medio grandi).
In tal senso la sentenza precisa, secondo un orientamento decisamente maggioritario nella Corte di legittimità, che il mobbing può assumere rilevanza penale ex art. 572 c.p. solo quando le condotte vessatorie avvengano in un contesto lavorativo para-familiare, ovvero un contesto lavorativo di ridotte dimensioni, in cui il rapporto di lavoro tra datore di lavoro e lavoratore subordinato si fondi essenzialmente sull’informalità e sulla fiducia, insomma in un reale contesto di tipo parafamiliare: “in tal senso è costante la giurisprudenza di legittimità che da ultimo ha affermato ancora una volta che le pratiche persecutorie realizzate ai danni dei lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione ( cosiddetto “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare (…)”.
Una sentenza precedente si muove lungo la stessa linea, pur riconoscendo nel caso specifico l’applicabilità del reato di maltrattamenti, proprio per la presenza qui si conclamata di un rapporto tra datore di lavoro e dipendente di natura parafamiliare: il soggetto vessato nella vicenda oggetto della sentenza svolgeva la propria prestazione lavorativa in un contesto familiare, nel quale aveva a che fare quotidianamente con i parenti dell’ex consorte: «le pratiche persecutorie finalizzate all’emarginazione del lavoratore possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia quando il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. Non occorre, pertanto, che ricorrano le condizioni formali di sussistenza dell’impresa familiare di cui all’art. 230 bis c.c.» (Cass. Pen., Sez. VI, 15 settembre 2015, n. 44589).
Occorre peraltro ricordare che esiste un orientamento minoritario, presente nel merito e in una sola sentenza della Cassazione, che ritiene che l’elemento discriminante non siano tanto le dimensioni dell’azienda, quando la concreta sussistenza di un rapporto parafamiliare tra dipendente e datore di lavoro/superiore, circostanza che potrebbe verificarsi anche nella azienda medio-grande che abbia più sedi, e in ognuna di esse potrebbe presentarsi una situazione parafamiliare, col che però alla fine anche la tesi minoritaria reintroduce il criterio dimensionale.
L’orientamento minoritario è sostenuto da alcune sentenze di merito (Trib. Milano, Sez. Cassano d’Adda, 14 marzo 2012; Trib. Milano, 30 novembre 2011) e da una sentenza della Suprema Corte di Cassazione (Cass. Pen., Sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 53416), secondo la quale “ai fini della sussumibilità nella fattispecie incriminatrice dei maltrattamenti nei confronti di lavoratori dipendenti, ex art. 572 c.p., l’esistenza di una situazione di para-familiarità – che si caratterizza per la sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari – e di uno stato di soggezione e subalternità del lavoratore va verificata avendo riguardo non al numero dei dipendenti in azienda, né alla durata del rapporto di lavoro, o alla direzione delle condotte discriminatorie nei confronti di una pluralità di soggetti ed alla reazione della vittima, bensì, da un lato, alle dinamiche relazionali in seno all’azienda tra datore di lavoro e lavoratore; dall’altro, all’esistenza o meno di una condizione di soggezione e subalternità”, senza che, ai fini della tutela penale, le dimensioni organizzative dell’azienda coinvolta potessero rivestire alcuna rilevanza». In questa sentenza la Cassazione attribuisce rilievo ex art. 572 c.p. anche a «dinamiche para-familiari nell’ambito dei singoli reparti e, dunque, nei rapporti fra il capo reparto ed il singolo addetto», e dunque si torna di fatto ad un riferimento dimensionale.
Attenzione però ad un punto essenziale, già sopra evidenziato: la mancanza dei presupposti per contestare l’art. 572 del Codice Penale sui maltrattamenti non significa che le condotte vessatorie sul luogo di lavoro non presentino profili rilevanti da un punto di vista penale.
Difatti l’orientamento maggioritario precisa che l’impossibilità di contestare la violazione dell’art. 572 c.p. non esclude che le condotte mobbizzanti siano del tutto prive di possibile sanzione penale: al contrario, nel caso in cui ne siano presenti gli estremi, le condotte vessatorie potranno integrare altre fattispecie penali: “a dispetto della riaffermazione del principio dell’astratta configurabilità del reato nelle condizioni date e a conferma della frequente affermazione d’inapplicabilità nelle fattispecie considerate, va, infatti, precisato che la figura di reato di cui all’art. 572 c.p. non costituisce la tutela penale del c.d. mobbing lavorativo, il quale, ove dante luogo a condotte autonomamente punibili (ingiurie, diffamazione, minacce, percosse, lesioni personali, violenza privata, sequestro di persona, etc), trova nelle corrispondenti figure di reato il relativo presidio” (Cass. Pen., Sez. VI, 29 settembre 2015, n. 45077).
Rolando Dubini, avvocato in Milano, cassazionista
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