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Autore: Gerardo Porreca
Categoria: Sentenze commentate
06/05/2019: Le carenze di misure di prevenzione che hanno portato a delle lesioni gravi di un lavoratore, se derivanti da precise scelte societarie per risparmiare sui costi della sicurezza, costituiscono un illecito amministrativo ai sensi del d. lgs. n. 231/2001.
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Riguarda l’applicazione del D. Lgs. n. 231/2001 sulla responsabilità degli enti questa sentenza della Corte di Cassazione chiamata a decidere su di un ricorso presentato da un datore di lavoro e dal legale rappresentante della società di appartenenza con riferimento all’infortunio occorso a un operaio dipendente, privo di dispositivo sia collettivo che individuale di protezione, caduto dall’altezza di cinque metri a seguito della rottura di una delle lastre di eternit che stava rimuovendo sulla copertura di un capannone industriale. Al datore di lavoro erano state contestate delle violazioni in materia di sicurezza nei lavori in quota e al legale rappresentante della società l’illecito amministrativo ai sensi dell’art. 25 septies del D. Lgs. n. 231/2001 per avere reso possibile la commissione del delitto da parte del datore di lavoro in assenza di un modello organizzativo relativo alle modalità di esecuzione delle operazioni da eseguire sulla copertura del capannone, il che aveva comportato, secondo i giudici, una diminuzione dei tempi di intervento e una riduzione degli investimenti relativi alla predisposizione di idonee attrezzature di sicurezza nell’interesse della società medesima.
Le carenze di misure di prevenzione che portano a delle lesioni gravi di un lavoratore, ha infatti sostenuto la suprema Corte, se derivanti da precise scelte societarie allo scopo di risparmiare sui costi della sicurezza, costituiscono un illecito amministrativo ai sensi del D. Lgs. n. 231/2001 essendo legato il ‘risparmio’ oltre che alla diminuzione degli investimenti per l’acquisto degli strumenti cautelativi necessari o per lo svolgimento di corsi di formazione per i dipendenti anche alla riduzione dei tempi di produzione.
La sentenza in commento si ritiene importante anche perché richiama, i concetti di “interesse” e di “vantaggio” di cui all’art. 5 del D. Lgs. n. 231/2001, e lo fa citando esplicitamente la precedente sentenza 2544 della stessa IV Sezione penale della Corte di legittimità ( Sulla differenza fra reato commesso a vantaggio o interesse di un ente), chiarendo che gli stessi sono due concetti giuridici che possono essere alternativamente presenti sì da giustificare comunque la responsabilità dell’ente e precisando ulteriormente che il concetto di interesse attiene a una valutazione ex ante, rispetto alla commissione del reato, mentre il concetto di vantaggio implica il suo effettivo conseguimento a seguito della consumazione del reato e quindi si basa su di una valutazione ex post.
Il fatto e le sentenze dei primi due gradi di giudizio
Il ricorso per cassazione e le motivazioni
Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione
Il fatto e le sentenze dei primi due gradi di giudizio
La Corte di Appello ha confermata la sentenza del Tribunale con la quale il presidente del consiglio di amministrazione di una s.r.l. è stato ritenuto responsabile del reato di cui agli artt. 590, commi 2 e 3 del codice penale, per avere colposamente cagionato, con imprudenza, negligenza ed imperizia ed in violazione delle norme di prevenzione e di sicurezza sul lavoro di cui agli artt. 111 lett. a) e 115 del D. Lgs. n. 81/2008, lesioni personali gravi a un lavoratore dipendente che operando in quota e in assenza di dispositivi di protezione sia individuali che collettivi era scivolato, dopo essersi sganciato dalla linea vita, su una tavola in legno predisposta per il camminamento ed era quindi precipitato da un’altezza di circa cinque metri, dopo aver sfondato una lastra in fibrocemento. La sentenza ha altresì confermata la responsabilità della società in persona del suo legale rappresentante, in ordine all’illecito amministrativo di cui all’art. 25 septies del D. Lgs. 231/2001, per avere reso possibile la commissione del delitto da parte del presidente, nell’interesse della società, per la mancata adozione di un modello organizzativo relativo alle modalità di esecuzione di operazioni sulla copertura di capannoni industriali, il che aveva comportato una diminuzione dei tempi di intervento ed aveva evitato investimenti relativi alla predisposizione di idonee attrezzature di sicurezza.
La sentenza, dopo aver ricostruita la vicenda, ha affermata la colpevolezza del presidente della società, nella sua veste di datore di lavoro, di redattore del piano operativo per la sicurezza, di direttore tecnico e di capocantiere, e ha evidenziato, altresì, che lo stesso nel piano di lavoro aveva prevista la necessità di predisporre, a tutela degli operai che lavoravano sul tetto del capannone, una rete di protezione che però non era stata effettivamente posizionata e che nello stesso piano di lavoro, secondo quanto evidenziato dal tecnico dello Spisal, era stata indicata la presenza di una soletta portante mentre quella ove operava l’operaio non lo era, ed erano stati previsti altresì camminamenti con tavole da ponte mentre al momento dell’infortunio sulla copertura vi era solo un’asse in legno di modeste dimensioni, collocata a ridosso del lato inferiore del tetto vicino al punto di caduta del lavoratore infortunato e lontano dalla scala che serviva per accedere alla copertura. La cintura consegnata al lavoratore da agganciare alla linea vita, inoltre, non era dotata del doppio cordino necessario a consentire il passaggio da un anello all’altro della linea vita e quindi ad assicurare un collegamento costante con il presidio per cui era inidonea a fornire un valido strumento di protezione individuale.
Priva di riscontro, inoltre, era risultata la difesa dell’imputato, il quale aveva sostenuto l’impossibilità oggettiva di provvedere all’allestimento della rete di protezione per installare la quale era necessario uno spazio sottostante libero di almeno tre metri mentre al di sotto della zona ove si operava vi erano bobine, carrelli elevatori e macchinari che ne impedivano la collocazione. Era stata altresì smentita in udienza la versione dell’imputato secondo cui il lavoratore infortunato, sganciatosi dalla linea vita, avrebbe fatto un ‘salto’ dalla falda alla lastra dalla quale era caduto.
Con riferimento infine alla violazione amministrativa addebitata alla società la sentenza ha affermato che le carenze delle misure di prevenzione individuali e collettive riscontrate erano state il frutto di una vera e propria scelta societaria per risparmiare sui costi della sicurezza e non dovute a una mera sottovalutazione della loro importanza.
Il ricorso per cassazione e le motivazioni
Avverso la sentenza della Corte di Appello sia il presidente della società, quale datore di lavoro, che la società stessa hanno proposto ricorso per cassazione, a mezzo dei loro difensori, avanzando delle motivazioni chiedendo l’annullamento della sentenza stessa. Come prima motivazione i ricorrenti hanno sostenuto che la sentenza impugnata aveva omesso di considerare che il comportamento tenuto dal lavoratore aveva di per sé escluso il nesso causale fra la condotta addebitata al datore di lavoro e l’evento infortunistico posto che l’operaio, pur essendo un lavoratore esperto e perfettamente consapevole del rischio di caduta dall’alto oltre che adeguatamente formato, si era volontariamente sganciato dalla linea vita, come da lui stesso riconosciuto, e considerato che aveva tenuto un comportamento del tutto imprevedibile. In definitiva, secondo i ricorrenti, l’atto autonomamente posto in essere dal lavoratore infortunato, contrario alle prescrizioni impartite ed al disposto dell’art. 20 del D. Lgs. n. 81/2008 e del tutto incongruo, andava considerato pertanto interruttivo del nesso causale.
Come seconda motivazione i ricorrenti hanno posto in evidenza che la rete anticaduta non poteva essere collocata nel punto in cui è avvenuto l’infortunio, essendo presenti al di sotto alcuni oggetti non movimentabili, la cui presenza non consentiva il posizionamento, tenuto conto dello spazio verticale necessario per l’installazione, pari a tre metri. La concreta impossibilità di provvedere a una protezione collettiva e la contestuale dotazione dei presidi individuali idonei ad evitare il rischio di caduta avrebbero dovuto quindi condurre all’esclusione della responsabilità colposa del presidente non potendo rimproverarsi allo stesso la mancata adozione di cautele che non potevano oggettivamente essere adottate.
Come ulteriore motivazione i ricorrenti hanno sottolineato che la Corte, disattendendo le richieste della difesa ed anche quelle del Procuratore Generale che aveva concluso per l’esclusione della responsabilità dell’ente, aveva ritenuto che la mancata installazione della rete anticaduta fosse derivata dalla scelta di perseguire un risparmio di spesa, senza tenere in considerazione che le reti erano state installate ovunque nel cantiere e che solo l’impossibilità fisica di provvedervi in quella zona aveva causata la mancata collocazione della rete sotto la copertura del capannone ove si era verificata la caduta del lavoratore per cui non si poteva ravvisare nel comportamento della società nessuna politica di impresa rivolta ad evitare spese sulla sicurezza. I ricorrenti hanno lamentato infine che la Corte territoriale, nel negare l’attenuante a favore dell’imputato, non aveva indicato le misure idonee a colmare la genericità del modello organizzativo adottato dall’azienda.
Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione.
I ricorsi sono stati ritenuti dalla Corte di Cassazione inammissibili. Con riferimento alla sostenuta impossibilità di sistemare una rete di protezione al di sotto della zona della copertura dalla quale era caduto il lavoratore la Corte suprema ha posto in evidenza come nella sentenza impugnata era stato sostenuto che, diversamente dalle dichiarazioni dell’imputato e della società, non fosse stato affatto impossibile collocare la rete di protezione che avrebbe consentito di evitare le gravi conseguenze della caduta, in quanto, come riferito dal tecnico Sprisal, la rete fu posata dopo l’infortunio, non potendo proseguire il lavoro altrimenti, a dimostrazione quindi che ciò era possibile sin da prima. D’altro canto, le fotografie scattate dal tecnico dell’organo di vigilanza proprio il giorno dell’infortunio avevano dimostrato uno stato dei luoghi privo di materiali ingombranti che avrebbero impedito l’efficace installazione della rete, essendovi bobine e carrelli elevatori di altezza modesta e non tale da ostacolare la predisposizione della protezione collettiva.
Con riferimento poi alla responsabilità della società e all’osservazione fatta dalla difesa secondo cui la sentenza impugnata aveva omesso di indicare in che cosa sarebbe consistito il ‘risparmio’ conseguito dalla società per non avere provvedendo a collocare la rete sotto la falda ove si era prodotto l’infortunio dato che le reti erano a disposizione nel cantiere ed erano state utilizzate per lo svolgimento dei lavori in altre parti dello stesso capannone e che non erano state posizionate nella zona dell’infortunio solo perché ciò non era stato possibile, la suprema Corte ha richiamato i concetti di ‘interesse’ e ‘vantaggio’ di cui all’art. 5 del D. Lgs. n. 231/2001. La stessa ha chiarito in merito che si tratta di concetti giuridicamente diversi, che possono essere alternativamente presenti, sì da giustificare comunque la responsabilità dell’ente, come reso palese dall’uso della congiunzione “o” da parte del legislatore nello stesso articolo 5 e come è desumibile, da un punto di vista sistematico, dall’art. 12, comma 1, lett. a), dello stesso decreto legislativo, laddove si prevede una riduzione della sanzione pecuniaria nel caso in cui l’autore ha commesso il reato “nell’interesse proprio o di terzi” e “l’ente non ne ha ricavato un vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo”, il che implica astrattamente che il reato può essere commesso nell’interesse dell’ente, senza procurargli in concreto alcun vantaggio (sez. 4, n. 2544 del 17/12/2015, dep. 21/1/2016, Gastoldi ed altri).
La Corte di Cassazione ha ulteriormente precisato che il concetto di interesse attiene ad una valutazione ex ante rispetto alla commissione del reato presupposto, mentre il concetto di vantaggio implica l’effettivo conseguimento dello stesso a seguito della consumazione del reato, e, dunque, si basa su una valutazione ex post. La stessa ha inoltre precisato, dopo aver affermato il carattere alternativo delle due ipotesi, che il requisito dell’interesse dell’ente ricorre quando la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha consapevolmente agito allo scopo di far conseguire un’utilità alla persona giuridica e ciò accade, per esempio, quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l’esito, non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi d’impresa. In tal caso quindi, l’autore del reato, pur non volendo il verificarsi dell’infortunio in danno del lavoratore, ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di soddisfare un interesse dell’ente e a far ottenere, ad esempio, alla società un risparmio sui costi in materia di prevenzione. Ricorre, invece, il requisito del vantaggio per l’ente quando la persona fisica, agendo per conto dell’ente, anche in questo caso, ovviamente, non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha violato sistematicamente le norme prevenzionali e dunque ha realizzato una politica d’impresa disattenta alla materia della sicurezza sul lavoro consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto.
Secondo la Sez. IV in definitiva la Corte territoriale ha giustamente valutata, nel caso in esame, la sussistenza di un ‘interesse perseguito dalla politica assunta dalla società in materia di sicurezza sul lavoro posto che non solo non era stata collocata la rete anticaduta ma erano mancati finanche i presidi individuali idonei, tanto che anche le cinture di sicurezza si erano dimostrate inadeguate perché senza il doppio cordino e tanto che, anziché predisporre camminamenti con tavole ponte, era stata utilizzata una sola tavola per tutta la copertura dalla quale poi era caduto il lavoratore.
La Corte di Cassazione ha così concluso affermando che “la sottovalutazione sistematica dei rischi -come precisato dalla giurisprudenza di legittimità- va considerata chiaro sintomo di scelte imprenditoriali volte ad ottenere risparmi sui costi a dispetto degli obblighi di sicurezza gravanti sull’imprenditore a tutela della salute dei lavoratori” e ha aggiunto ancora che “il ‘risparmio’ si consegue anche riducendo i tempi di lavorazione e non solo gli investimenti per l’acquisto di strumenti cautelativi o per lo svolgimento di corsi di formazione dei dipendenti. Sicché anche laddove i presidi collettivi ed individuali siano presenti e conformi alla normativa che ne regola le caratteristiche, anche laddove i lavoratori siano stati correttamente formati, ma poi le lavorazioni in concreto si svolgano senza prevedere l’applicazione ed il controllo dell’utilizzo degli strumenti in dotazione, al fine di conseguire il risultato di una riduzione dei tempi, si realizza quell’intento di far perseguire alla persona giuridica un’utilità, descritto dalla norma incriminatrice, come interesse”.
Per quanto sopra detto i ricorsi sono stati dichiarati inammissibili e i ricorrenti condannati al pagamento delle spese e della somma di duemila euro ciascuno in favore della Cassa delle ammende
Gerardo Porreca
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