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Un intervento si sofferma sulla individuazione delle posizioni di garanzia e del datore di lavoro con particolare riferimento agli aspetti societari. Le posizioni di garanzia, il canone di effettività e le organizzazioni complesse.
Urbino, 1 Ago – Riguardo al delicato tema della individuazione delle posizioni di garanzia in materia di sicurezza e salute si avverte la “limitatezza del tradizionale strumentario lavoristico; almeno quando con questo termine si alluda alle categorie di derivazione civilistica di più frequente utilizzo: la titolarità formale del rapporto di lavoro; il porsi come parte contrattuale; il riconoscimento cartolare di una data posizione categoriale e via discorrendo”. Non si può negare che “questa impostazione di fondo non sia perfettamente adeguata all’inquadramento ed alla conseguente soluzione delle questioni riguardanti la gestione del rapporto e la sua normale dinamica”. Ma quando ci si sposta “sul piano della indagine involgente i temi della sicurezza, emergono con forza i limiti di quel modello ricostruttivo”.
A fare queste affermazioni in relazione all’individuazione delle posizioni di garanzia in materia di sicurezza è un intervento che si è tenuto al convegno di studi su «La sicurezza sul lavoro nella galassia delle società di capitali» (Università di Urbino, 14 novembre 2014). Un intervento raccolto, insieme agli altri atti del convegno, nel Working Paper, pubblicato da Olympus nel mese di dicembre 2015, dal titolo “ La sicurezza sul lavoro nella galassia delle società di capitali – Atti del Convegno di Studi – Urbino – 14 novembre 2014” e a cura di Piera Campanella e Paolo Pascucci (professori ordinari di Diritto del lavoro nell’Università di Urbino Carlo Bo).
In “Assetti societari e individuazione del datore di lavoro per la sicurezza”, a cura di Francesco Basenghi (Professore associato di Diritto del Lavoro nell’ Università di Modena-Reggio Emilia) si indica che non ha torto “chi ritiene che si debba considerare quello della sicurezza sul lavoro come ambito a sé, come settore disciplinare dotato di propria dignità, come species dello scibile giuridico ormai dotato di autonomia, caratterizzato dalla convivenza blended e dalla contaminazione di stilemi e modelli che non sono più propri del diritto del lavoro, del diritto penale o del diritto commerciale, ma che hanno ormai raggiunto una propria piena ed autosufficiente validazione sul piano epistemologico”.
E il “terreno elettivo di collaudo” di questi spunti è, ad esempio, “quello che interessa la individuazione dei titolari delle posizioni di garanzia”.
Nell’intervento, che vi invitiamo a visionare integralmente, l’autore opera un excursus delle diverse stagioni normative in materia di salute e sicurezza nel nostro paese, a partire dalla stagione che “si colloca storicamente a metà degli anni cinquanta”, che aveva visto un complesso corpus normativo con “la previsione di adempimenti puntuali e specifici, calati sulla realtà di una impresa organizzata secondo i modelli del periodo”. Fino ad arrivare, in relazione agli impegni assunti in ambito comunitario, ad una “ben nota filosofia olistica della sicurezza, intesa come obiettivo diffuso dell’azione congiunta e coordinata di più livelli intersoggettivi”.
Si ricorda poi la “quadripartizione soggettiva riguardante i debitori in sicurezza” ( datore di lavoro, dirigente, preposto, lavoratore) – che “ha mostrato una straordinaria vitalità” e tale da “presentare ancor oggi piena attualità”. Ed infatti “a differenza dei contenuti oggettivi dell’obbligo di sicurezza, per loro natura esposti agli straordinari processi di trasformazione dell’impresa quanto al cosa ed al comeprodurre”, il sistema di articolazione e declinazione dei contenuti soggettivi “ha mostrato una ben maggiore capacità di resistenza a quei medesimi processi, evidentemente sul presupposto che, al di là della complessità dei modelli organizzativi, della loro trasformazione e della loro evoluzione, la struttura d’impresa rimane comunque fedele ad una architettura che pone in ogni caso al vertice il soggetto titolare delle massime prerogative decisionali, ossia il datore di lavoro; datore di lavoro – per definizione titolare dei più estesi poteri direttivi e, quindi, primo debitore in sicurezza – dal quale procede la ripartizione intersoggettiva ‘a cascata’ del debito prevenzionistico, corrente lungo la linea di comando di cui egli stesso è artefice e gestore esclusivo”.
Ed è dunque muovendo proprio dalla posizione apicale che il debito di sicurezza “viene poi suddiviso tra gli altri soggetti tributari di una data frazione delle prerogative di derivazione datoriale e ciò in misura proporzionale al quantum di poteri conferiti”. Esisterebbe, insomma, una “relazione biunivoca tra la consistenza delle prerogative assegnate al soggetto e la corrispondente quota dell’obbligazione a questi imputata”. A questo proposito sono citate diverse sentenze che mostrano come ai fini dell’identificazione della persona responsabile, nell’ambito di un’impresa di grandi dimensioni, in cui la ripartizione delle funzioni è imposta dall’organizzazione aziendale, “occorre accertare l’effettiva situazione di responsabilità all’interno delle posizioni di vertice per individuare i soggetti cui i compiti di prevenzione sono concretamente affidati con la predisposizione e l’attribuzione dei correlativi e necessari poteri di adempierli” (Cass. pen., 26 aprile 2000, n.7402; Cass. pen., 12 ottobre 2005, n. 44650; Cass. pen., 19 febbraio 1998, n. 453; Cass. pen., 3 marzo 1998, n. 548).
Non rimane dunque che comprendere se le figure chiamate dalla legge ad “assumere le posizioni di garanzia in materia di sicurezza – datore di lavoro, dirigente, preposto, lavoratore – coincidano con le omologhe figure elaborate all’interno dell’esperienza giuslavoristica stricto sensu intesa”. E la risposta non può che essere negativa, come ben si evince anche dalla definizione in apertura del D.Lgs. 81/2008, relativamente alla figura datoriale. Nella scelta di individuare il datore di lavoro nel ‘soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque’ nel ‘soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa’.
Insomma il sistema “valorizza il c.d. canone di effettività, ossia quel criterio che modula la distribuzione del carico obbligatorio” sulla “concreta e reale assegnazione di compiti in materia a ciascuno dei soggetti coinvolti. Beninteso, con una avvertenza: l’ effettività non va confusa con la semplice circostanza storica ed estrinseca – si direbbe accidentale – dell’esercizio materiale di certe prerogative da parte di un dato soggetto; al contrario, questo canone presuppone una attenta analisi di norme, regole e prassi concorrenti rispetto alla assegnazione dei poteri, degli obblighi e delle relative responsabilità tra tutti coloro che rivestono precisi ruoli nell’ambito della struttura organizzata volta per volta considerata”. Ed è dunque dall’analisi di questo sistema ripartitorio “che si evince chi possa – ergo, debba – tenere il comportamento prescritto”.
In questo senso – continua il relatore – non meraviglia il risultato della “potenziale moltiplicazione delle figure datoriali all’interno della stessa impresa; posizione di garanzia riferibile a tutti coloro che – al di là di ogni imputazione, ruolo o schema formale – abbiano le prerogative di massima ampiezza e consistenza sul complesso aziendale o, lato sensu, organizzato”.
L’intervento si sofferma poi nelleoperazione di individuazione del datore di lavoro all’interno delle “organizzazioni complesse la cui governance sia attribuita ad organismi collegiali”. Ed è noto che “la posizione assunta dalla giurisprudenza da tempo dominante vuole estesa a tutti i componenti dell’organo di vertice la responsabilità gravante sul datore di lavoro. Tipico è il caso del consiglio di amministrazione, rispetto al quale si afferma usualmente che gli obblighi inerenti alla prevenzione posti dalla legge a carico del datore di lavoro gravano indistintamente su tutti i suoi componenti”. Affermazione che “trova parziale correzione nel caso in cui – come spesso accade – l’organo consiliare abbia delegato proprie attribuzioni ad uno o più dei propri membri. E si tratta di una correzione ancora una volta coerente con la regola di effettività, dal momento che l’estensione dell’area debitoria consegue al reale conferimento di poteri al delegato”.
Tuttavia il ricorso alla delega “non produce effetti esonerativi rispetto agli altri consiglieri sprovvisti di delega, visto che anche su costoro grava il dovere di agire in modo informato (art. 2382 c.c.) nonché quello di monitorare l’attività dei delegati; cosicché tale situazione può ridurre la portata della posizione di garanzia attribuita agli ulteriori componenti del consiglio, ma non escluderla interamente, poiché non possono comunque essere trasferiti i doveri di controllo sul generale andamento della gestione e di intervento sostitutivo nel caso di mancato esercizio della delega”. E si sta parlando di una delega che non va confusa con la “omonima figura oggi esplicitamente regolata dal T.U.: un conto è la delega di gestione ‘interna’ allo stesso organismo collegiale e volta al riassetto dei poteri di una entità in cui ogni componente è datore di lavoro; altro conto è la delega di funzioni di cui all’art. 16 (del D.Lgs. 81/2008, ndr), che produce effetti traslativi della responsabilità penale dal datore di lavoro – responsabileiure proprio – ad un diverso soggetto che, in quanto privo di datorialità, acquisisce le correlative responsabilità a titolo derivativo. Solo in questo secondo caso il datore di lavoro rimette questi obblighi ad altro da sé e la traslazione – oltre a dover avvenire nel rispetto delle condizioni formali di legge – non può riguardare poteri considerati inscindibilmente legati al ruolo datoriale, quindi indelegabili all’esterno”.
Infine per presentare un altro momento di prevalenza delle logiche dell’effettività, il relatore si sofferma in conclusione su quanto indicato dalla Cassazione ( Cass. S.U., 18 settembre 2014, n. 38343) in merito alla vicenda Thyssen-Krupp.
La sentenza individua il datore di lavoro “non nell’intero consiglio di amministrazione nella sua globalità, ma solo in capo a tre consiglieri delegati, tutti ritenuti dotati dei tipici poteri di gestione e spesa propri del ruolo di garante; e ciò perché tutti i tre consiglieri – sebbene fosse stato formalmente attribuita al solo amministratore delegato la responsabilità della sicurezza del lavoro – risultavano concorrere alla gestione collettiva dell’impresa, facendo parte di un board decisionale che si occupava di tutti i settori aziendali, compreso quello della sicurezza sul lavoro”. E all’esito di una puntuale istruttoria “si è potuto accertare in concreto non solo la quota di poteri e prerogative di fatto assegnati ai consiglieri ma anche la reale esistenza di un board decisionale, benché questo fosse stato formalmente – ma non realmente – soppresso”.
Tiziano Menduto
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