[vc_row][vc_column][vc_column_text]

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]

Alcuni elementi che sono stati totalmente trascurati e che avranno un impatto significativo sui processi formativi dedicati alle figure dei RSPP e degli ASPP e sull’efficacia della loro azione all’interno delle aziende. Di Carmelo G. Catanoso.

Lo scorso 7 luglio 2016 è stato sancito l’Accordo finalizzato alla individuazione della durata e dei contenuti minimi dei percorsi formativi per i responsabili e gli addetti dei servizi di prevenzione e protezione, a sensi dell’art. 32 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 e successive modificazioni.

 

L’obiettivo di questo contributo non è quello di illustrare i contenuti dell’Accordo ma evidenziare alcuni elementi che, a parere di chi scrive, sono stati totalmente trascurati e che avranno un impatto significativo sui processi formativi dedicati alle figure dei RSPP e degli ASPP e, soprattutto, sull’efficacia della loro azione all’interno delle aziende.

 

Innanzi tutto, è opportuno fare una premessa riguardante la situazione nel nostro Paese. In Italia le aziende fino a 9 dipendenti, rappresentano l’86,4% del totale mentre le imprese da 10 a 49 dipendenti sono il 12% del totale. In sintesi, il 98,4% delle imprese italiane è rappresentato da micro imprese e piccole imprese [1].

 

In queste aziende, in genere, il RSPP è stato individuato nello stesso datore di lavoro o in un consulente esterno e solo raramente la scelta è, invece, caduta su uno dei dipendenti di queste piccole realtà imprenditoriali.

 

Va ricordato che, per queste due tipologie di aziende, nel caso in cui il datore di lavoro decidesse di svolgere direttamente le funzioni di RSPP, l’Accordo Stato Regioni del 21 dicembre 2011 prevede, a suo carico, l’obbligo di frequenza ad un corso di formazione avente durata di 16 ore (rischio basso), 32 ore (rischio medio) e 48 ore (rischio alto) e dove la classificazione del rischio è funzione del codice ATECO di appartenenza dell’azienda (vedasi tabella II del citato Accordo).  Al termine del percorso formativo, nel rispetto della frequenza minima prevista (90% delle ore di formazione) e dopo la verifica di apprendimento, il datore di lavoro può ricoprire le funzioni di RSPP per la sua azienda. Ovviamente, per questa tipologia di “datore di lavoro”, l’Accordo prevede la frequenza a specifici corsi di aggiornamento (anche in modalità e-learning), tarati in funzione dei livelli di rischio (6 ore per rischio basso, 10 ore per rischio medio e 14 ore per rischio alto) e distribuito su un quinquennio. Accanto ai datori di lavoro che hanno optato per ricoprire l’incarico di RSPP e che hanno frequentato, a partire dall’inizio del 2012, i corsi strutturati come previsto dall’Accordo, coesiste un gran numero di datori di lavoro che rivestono le funzioni di RSPP e che hanno usufruito:

  • del totale esonero da qualunque obbligo formativo ai sensi dell’art. 95 del D. Lgs. n° 626/1994;
  • della frequenza al corso di 16 ore previsto dall’art. 3 del D.M. 16 gennaio 1997.

 

Non va però dimenticato che anche queste ultime due tipologie di datori di lavoro sono soggette all’obbligo di aggiornamento.

 

Pertanto, riguardo la figura del RSPP, guardando alla situazione attuale, si può affermare che, nella maggior parte dei casi, ci si trova di fronte ad un esercito della prevenzione costituito da un solo soggetto, spesso con una carica esclusivamente onoraria auto conferita (datore di lavoro), con medio-bassa scolarità, poca o nulla esperienza specifica alle spalle, in genere poco sensibile ai bisogni formativi e quasi sempre impegnato nelle altre attività della propria impresa.

 

Appare evidente, anche guardando la fascia d’imprese dove si concentrano gli infortuni sul lavoro (aspetto evidente visto che il 86,4% delle imprese ha meno di 10 dipendenti), che l’area d’intervento prioritaria era proprio quella riguardante questa categoria di datori di lavoro anche perché, non è da ritenere un’ipotesi remota che  il gap in materia di sicurezza sul lavoro e tutela della salute, esistente in questa tipologia d’imprese, sia dovuto anche allo svolgimento diretto da parte del datore di lavoro dei compiti di RSPP nonché all’esonero permanente di questi dai corsi di formazione specifici, visto che le poche ore di aggiornamento, spalmate su 5 anni, son ben poca cosa anche per mantenere alto il livello di attenzione al problema.

 

A fronte di questa situazione, che si trascina ormai da 20 anni, non era già sembrata coerente la scelta fatta con il precedente Accordo Stato Regioni del gennaio 2006, a fronte  del già citato condono tombale della formazione per i datori di lavoro previsto dall’art. 95 del D. Lgs. n° 626/1994, in cui per dare evidenza di un impegno nell’ambito della sicurezza e tutela della salute, il problema della sicurezza sul lavoro in Italia, era stato fatto diventare un problema RSPP-centrico.

In effetti, questa scelta poteva dirsi sensata se, a monte, ci fosse stata la decisione di escludere i datori di lavoro del citato 86,4% di imprese, dalla possibilità di espletare le funzioni di RSPP, imponendogli la nomina se non di un dipendente, almeno quella di un consulente esterno.

 

Consulente esterno che, in verità, era ed è, comunque, presente in questa tipologia di aziende ma che è in grado di espletare professionalmente ed efficacemente le proprie funzioni di supporto, al di là della propria competenza, solo in quelle imprese dove i datori di lavoro mettono questi professionisti nelle condizioni di poter realmente operare.

 

In altre parole, il problema non è solo la ridefinizione del bagaglio formativo dei RSPP e degli ASPP, rivisto con il nuovo Accordo ma sono soprattutto gli atteggiamenti ed i comportamenti che da questi ne  derivano, del suo principale interlocutore appena citato.

 

Quindi, il problema prioritario che si doveva e si deve porre il legislatore era quello di individuare tutti gli strumenti necessari per spingere le aziende, ed in particolare la citata tipologia d’imprese, a sviluppare una propria cultura della sicurezza e cioè l’integrazione della sicurezza, tra i principi ed i valori che regolano il rapporto tra gli individui e l’organizzazione d’appartenenza.

 

Si deve comprendere che è l’azienda, nella sua interezza, che si deve mettere in gioco, che deve rivedere il proprio approccio alle problematiche della sicurezza e della tutela della salute, in modo da creare un ambiente predisposto a condividere ed attuare le iniziative proposte dal RSPP.

 

Altrimenti il rischio è quello che qualunque tipo di formazione per gli RSPP, rischia di diventare praticamente inutile se nelle aziende si continuerà a intendere il ruolo del RSPP quale quello di:

  • cartaio e cioè fabbricante di documenti da tenere nel cassetto e da esibire a richiesta all’ente di vigilanza;
  • normotecnoburosauro e cioè esclusivo depositario delle norme di legge e delle procedure tecniche;
  • negoziatore del conflitto interno (azienda – sindacati) per le tematiche della sicurezza sul lavoro;
  • negoziatore del conflitto esterno (azienda – organi di vigilanza), per le tematiche della sicurezza sul lavoro;
  • filtro per il datore di lavoro, riguardo alle specifiche informazioni e le pressioni ambientali provenienti dall’esterno.

Nelle aziende, invece, si dovrà cominciare a capire che il ruolo del RSPP è quello di:

  • far percepire e comprendere il problema sicurezza nella sua globalità;
  • favorire la ricerca, all’interno dell’azienda, delle competenze necessarie per risolvere i problemi,
  • favorire l’integrazione delle diverse competenze presenti in azienda;
  • contribuire all’attivazione di un processo di crescita professionale dei soggetti coinvolti;
  • favorire i processi di comunicazione per la prevenzione e la protezione dai rischi;
  • coinvolgere il personale nelle attività organizzative e gestionali per la prevenzione e la protezione dai rischi;
  • contribuire alla motivazione del personale.

 

Oggi, grazie anche ai percorsi formativi definiti dai due Accordi Stato Regioni, i RSPP stanno sempre più acquisendo una nuova percezione e consapevolezza del proprio ruolo, che si sta evolvendo, da quello di depositario del sapere tecnico-normativo specifico a quello di animatore e facilitatore del cambiamento, con l’obiettivo di far comprendere ai datori di lavoro le effettive dimensioni del problema sicurezza sul lavoro e tutela della salute e il loro impatto sulle attività aziendali, operando con pazienza e costanza al fine di costruire una serie di rapporti interfunzionali in grado di acquisire il maggior numero di informazioni pertinenti necessarie per rendere sempre più affidabili i processi decisionali.

 

In parallelo, però, è necessario che si attuino una serie d’azioni in grado di incidere sui comportamenti delle piccole aziende e far percepire che la sicurezza sul lavoro non è un costo ma un investimento che produce un ritorno, anche nel breve periodo.

 

Istintivamente, l’azione che può sembrare prioritaria è quella indirizzata sia verso la richiesta di norme di legge più chiare e burocraticamente più leggere (vedi recente tentativo con DDL senatori Sacconi – Fucksia) che verso un inasprimento delle sanzioni rendendole economicamente più pesanti, in modo da ricordare alle imprese, nel confronto tra i costi di prevenzione e quelli relativi alla non osservanza delle norme ed al risarcimento dell’infortunio e/o della malattia professionale, che l’attività, volta a tutelare l’integrità psicofisica di tutto il personale, è un problema prioritario, socialmente ed economicamente rilevante che necessita, da parte del soggetto giuridico preposto, un maggiore investimento in risorse, nonché dei risultati che ne misurino l’impegno effettivo.

Le norme di legge ed i controlli sono necessari, ma servono solo a rafforzare le responsabilità attraverso le sanzioni a carico delle imprese ma, proprio per questo, non possono fornire, da sole, sufficienti motivazioni ad investire nella prevenzione.

Basta che la fonte del condizionamento (enti di vigilanza, Magistratura, ecc.) diminuisca, per qualunque ragione, la propria intensità per ritornare al punto di partenza.

Dunque, oggi, il problema prioritario non è solo quello di intervenire sul corpo legislativo di riferimento aspettandosi, poi, il miglioramento della situazione (la condivisione delle norme, da parte di talune imprese, è tutt’altro che automatica).

 

Il problema prioritario è, invece, quello di individuare ed attuare nuovi interventi in grado di portare ad un reale miglioramento della sicurezza e della tutela della salute grazie alla loro funzione preventiva deterrente ed incentivante esercitata prima che accadano gli eventi.

 

Importante è partire con una campagna di comunicazione che, per le piccole imprese, dovrà puntare sull’impegno etico che l’imprenditore assume per tutelare l’integrità psicofisica delle sue persone, sulla possibilità d’incidere su tutti quegli aspetti che influenzano negativamente il funzionamento dell’impresa (assenteismo, conflittualità, turnover, ecc.) e cioè su quello a cui, qualunque imprenditore, come detto prima, è sempre fortemente interessato, facendogli capire che la sua azienda, viste le dimensioni, non riuscirà mai a compensare questi effetti negativi a differenza della grande impresa o della multinazionale in grado di ridistribuire, con facilità i carichi di lavoro. Importante, è anche insistere sulle ricadute positive che gli investimenti prevenzionali possono portare alla piccola azienda, specialmente se spendibili in termini d’immagine e di reputazione nonché di differenziale positivo nell’acquisizione di nuovi clienti e nel mantenimento degli attuali.

Essenziale è anche strutturare dei meccanismi seri di accesso al mercato da parte delle imprese vincolandoli al preventivo soddisfacimento dei requisiti minimi richiesti dalle norme vigenti in tema di sicurezza e tutela della salute.

 

E’ anche necessario strutturare un permanente e selettivo sistema di finanziamento agevolato delle piccole imprese (abbandonando iniziative pur lodevoli ma aventi carattere emergenziale) permettendo loro sgravi fiscali e contributivi, sia in funzione di un andamento favorevole degli infortuni e delle malattie professionali (condotto in parallelo ma in modo distinto con l’andamento dei tassi specifici INAIL), sia per gli investimenti per il miglioramento continuo del livello di sicurezza, articolati secondo piani triennali di sviluppo. Qualcosa, insomma, che vada oltre la “scontistica” dell’OT 24 o il “Click day” dell’INAIL (quest’ultimo con tutte le polemiche riguardanti le modalità di assegnazione delle risorse disponibili).

 

E’ necessario intervenire immediatamente sulle pubbliche amministrazioni e far regolarizzare le palesi situazioni di rischio presenti in un qualunque ministero, ospedale, ufficio, scuola, ecc..  Altrimenti quale coerenza e credibilità può avere uno Stato che, da una parte continua a partorire leggi, leggine, circolari, ecc., e, dall’altra, è il primo a non applicarle nei propri luoghi di lavoro, spesso aperti al pubblico!

 

In conclusione, a giudizio di chi scrive, un cambiamento in futuro lo potremo avere, abbandonando l’idea del solo incremento del controllo, dell’inasprimento delle sanzioni e della formazione degli specialisti come i RSPP e gli ASPP ma creando, invece, un sistema che dimostri che l’investimento per la sicurezza e la tutela della salute oltre ad essere eticamente riconosciuto ed apprezzato dalla pubblica opinione, produce un ritorno economico tangibile in quanto:

  • permette all’impresa l’accesso e la permanenza sul mercato dove esiste un sistema di controllo efficiente ed efficace da parte degli enti preposti,
  • costituisce un vantaggio competitivo rispetto ad altre aziende dello stesso settore,
  • permette la riduzione dei costi indiretti (assenteismo, turnover, ecc.),
  • aumenta l’efficienza dei processi lavorativi,
  • fa accedere ad agevolazioni fiscali e contributive,
  • migliora l’immagine aziendale e
  • riduce la conflittualità interna ed esterna.

In conclusione, sarà solo la definizione ed attuazione di una strategia di ben più profondo ed ampio respiro che potrà dare uno scossone al cristallizzato status della sicurezza sul lavoro nel nostro paese e non certo la sola formazione a carico dei RSPP e ASPP (soggetti che hanno, allo stato delle cose, ben poche possibilità d’incidere sui processi decisionali finalizzati delle aziende) ed evitare che il nuovo Accordo Stato Regioni sulla formazione del RSPP e degli ASPP sembri, più che altro, il rafforzamento del business della formazione per una miriadi di enti vari ma organizzativamente e qualitativamente inadeguato anche in riferimento agli obiettivi di un serio sistema prevenzionale.

Infine vale la pena chiude questo contributo ricordando che l’obiettivo del RSPP deve essere quello di diventare un ruolo obsoleto in quanto è riuscito a massimizzare il trasferimento del bagaglio di competenze specialistiche di cui era portatore, ai suoi interlocutori aziendali.

 

Carmelo G. Catanoso

Ingegnere Consulente di Direzione

[/vc_column_text][lsvr_separator][/vc_column][/vc_row]